L'agenda del premier

La prospettiva liberaldemocratica non si addice a Monti

di Ernesto Paolozzi*

Dopo mesi di attesa quasi messianica, alla ricerca di un programma di governo capace di invertire il declino italiano, il documento programmatico, la cosiddetta agenda Monti, che dovrebbe rappresentare la base per un nuovo raggruppamento politico in grado di incarnare il perno del prossimo governo italiano, risulta generico, qualche volta addirittura deludente. Si tratta, in linea di massima, di petizioni di principio su cui tutti possono, anzi devono, concordare: la fedeltà all’Europa, il rispetto dei conti pubblici, la necessità di innescare la crescita, le priorità della scuola, dell’occupazione giovanile, dell’onestà politica e così via. Ma se si dovesse cercare qualche soluzione fantasiosa, qualche innovazione reale, una visione organica e complessiva, la ricerca sarebbe vana.

E’ evidente che il tentativo di rendere politica, per così dire, la cifra tecnocratica del governo Monti abbia generato un compromesso che ha semplicemente sbiadito il profilo stesso del nuovo partito in via di creazione.

Si auspicava che, finalmente, sarebbe nato un movimento, un partito, di chiara ispirazione liberaldemocratica con ambizione maggioritaria in grado di competere, e forse vincere, fra la sinistra postcomunista e la destra conservatrice. Ma quale sarebbe il profilo democratico-liberale dell’agenda e su quali gambe le idee liberali dovrebbero camminare? Su tale questione si ha il dovere morale di essere chiari.

In questi mesi drammatici nei quali, certamente, il prestigio personale di Monti ha contribuito a superare l’acme di una crisi finanziaria, speculativa e di immagine di assoluta gravità, è accaduto che, nella concitazione degli eventi, si sia finito col confondere una politica dirigista, rigida e burocratica con una politica di stampo liberale. Il timbro liberale, infatti, non si identifica con una mera politica di rigore, di forte contrasto allo sperpero di denaro pubblico. E’ semmai, questa, una premessa, una condizione indiscutibile così come quella, del resto, dell’onestà politica.

Una vera politica liberale per l’Europa deve prevedere, al contrario, una revisione profonda e rigorosa delle regole, asfissianti, che si vogliono imporre ad un continente intero, a più di quattrocento milioni di abitanti, dalle tradizioni, dalle culture e dai sistemi sociali così diversi.

Ciò di cui ha bisogno il nostro paese non è soltanto una politica di controllo della spesa agita a costo di mortificare la libertà dei cittadini fino a ridurli a sudditi. Ciò che urge è invece l’introduzione di elementi di liberalizzazione (che non si identifica con la privatizzazione) in grado di mettere in movimento l’intera società così che, veramente e seriamente, si creino le condizioni perché tutti, soprattutto i più giovani e i più deboli, possano avere uguali opportunità. Niente di più illiberale della attuale società dei privilegi e delle nuove corporazioni la cui riforma dovrebbe rappresentare la priorità per ogni politica che si ispiri anche lontanamente al liberalismo.

Il liberalismo è un metodo di interpretazione della realtà e una guida per l’azione politica che ha necessità di misurarsi e rinnovarsi costantemente con e nella storia. Eppure, se proprio dovessimo mettere in rilievo due priorità, indicare una definizione, potremmo dire che la democrazia liberale deve fondarsi sull’idea che i poteri limitano i poteri e che a tutti debbano essere garantiti uguali livelli di partenza. Ed è proprio su tale terreno che è possibile superare quell’ impasse che Ralf Dahrendorf, già molti anni fa, denunciava: il corto circuito fra economia di mercato e Stato sociale. La necessità di tenere insieme libertà e giustizia sociale in un momento di crisi rappresenta quella quadratura del cerchio che proprio alla politica tocca di realizzare.

Il governo Monti e i vecchi e nuovi partiti che si riunificano sotto il suo nome non mi sembrano, francamente, possedere tale sensibilità politica.

Senza volere, per carità, disseppellire vecchie battaglie anticlericali o, parafrasando Giovanni Spadolini, allargare il letto del Tevere, non si può non rimanere perplessi di fronte all’endorsement, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, nei confronti di Monti. E nemmeno si comprende, dal nostro punto di vista, l’alleanza fra settori del capitalismo italiano e associazioni cattoliche di base. Non che, in via di principio, non si possano e non si debbano trovare punti di contatto fra culture diverse, soprattutto in riferimento a quel bene comune che è la nazione, o patria, italiana. Ma un conto sono il confronto e il dialogo, altro è un’alleanza politica vera e propria, che sembra così nascere più sotto il segno di un’alleanza elettorale che non su quella di una condivisione di principii.

Le parole hanno un peso, un significato specifico, esprimono sensibilità diverse anche se, talvolta, sembrano sinonimi. Solidarietà, giustizia sociale, equità, non sono la stessa cosa ma esprimono, propriamente, tre concezioni della vita diverse, quella cattolica, quella socialista e quella liberale, pur nel comune rispetto della fragilità umana. Solidarismo significa benevolmente concedere qualcosa a qualcuno; giustizia sociale significa riferirsi ad un intervento per sanare diseguaglianze inaccettabili; equità, creare le condizioni affinché si abbattano le diseguaglianze senza mortificare le differenze. A chi dunque ci chiede se la prospettiva posta da Monti si possa definire liberal-democratica temiamo si debba rispondere negativamente. Lo diciamo, senza retorica, con rammarico, giacché si tratta dell’ennesima occasione mancata per il nostro paese. C’è dunque ancora bisogno che si lavori, con pazienza e ostinazione, per la creazione di un’area liberal-democratica in grado di costruire, in Italia come in Europa, una società più giusta e più libera, capace di competere in un mondo globalizzato in cui rischiano di venire meno i principi fondativi dello stesso convivere civile.

*Docente di Storia della filosofia